UNA FESTA TRA NOI E I MORTI

UNA FESTA TRA NOI E I MORTI

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Una copia del libro “Una festa tra noi e i morti / sull’Orestea di Eschilo” di Simone Derai, Edizioni Cronopio 2020. Contiene un saggio di Susanna Pietrosanti sulla traduzione dal greco di Patrizia Vercesi e Simone Derai.

 

Con questa pubblicazione si intende rendere conto del lavoro drammaturgico e di traduzione compiuto sulla trilogia di Eschilo messa in scena da Anagoor nel 2018. Orestea / Agamennone, Schiavi, Conversio, che ha inaugurato il 46° Festival internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, è un lavoro teatrale che si dichiara fin dal titolo sull’Orestea di Eschilo. Non una riduzione del testo originale, né un trattamento della vicenda, ma un confronto con l’opera che estende il dominio del teatro ai campi anti-teatrali della performance e della critica. Una presa di posizione programmatica che spalanca e non nasconde i problemi di traduzione, non solo linguistica, e di rappresentazione della tragedia oggi. Cosa significa recarsi a cospetto del corpus eschileo, della sua materia drammatica e, in primo luogo, verbale, come affrontare la scalata a quell’impalcatura bifida che sorregge i due discorsi, paralleli ed intrecciati come i serpenti del caduceo, sulla giustizia e sull’essere? Con queste premesse l’Orestea di Anagoor non è la tragedia che conduce alla celebrazione fondativa della politica come desidera una lettura tradizionale forse troppo elementare, o quantomeno lo è solo successivamente. Essendo la politica subordinata alla concezione che ci facciamo del mondo, ed essendo il giudizio degli uomini fallibile, la sua costruzione è soggetta a vizi ed errori di sguardo. Eschilo indica all’alba della filosofia la necessità di riparare ad un errore iniziale. “In questo veder male sta la nostra cultura” recita Sergio Quinzio, primo di tanti pensatori illustri che in questa Orestea abitano la bocca del Corifeo / Didaskalos (interpretato Marco Menegoni), parlando per mezzo di lui. Il tragico di Eschilo appare come un segnale di pericolo che suona fin dall’origine della storia del pensiero dell’Occidente: “L’allarme! L’allarme! La città è stata presa!” avverte la sentinella da sopra il tetto della casa. Attraverso la lettura ontologica dell’Orestea, debitrice della lezione imprescindibile di Emanuele Severino, si delinea anche un’idea del tragico imprevista: anziché stabilire una volta per tutte l’ineluttabilità e l’insolubilità dei conflitti, Eschilo pare invocare un superamento della contesa per mezzo di una sospensione dell’agire. Il confronto con i coevi programmi scultorei dei frontoni del tempio di Zeus realizzati dal maestro di Olimpia sembrano confermare la manifestazione del divino nell’arrestarsi della volontà prevaricatrice. L’Orestea di Anagoor rincorre Eschilo ma anche Socrate, Broch, Severino, Givone, l’amato Sebald, la Harendt, Mazzoni, una muta di Virgili apripista per scendere a ritroso nel tempo, fin dentro la sera, fin dentro la notte, lungo la schiena dell’Occidente, e risalire poi il sentiero che dal bacino del Mediterraneo attraversa le foreste europee, all’inseguimento delle tracce che portano ai rituali funebri, all’origine del teatro, alle ossessioni e ai deliri del continente, alle fosse comuni. La pubblicazione del testo completo dell’Agamennone di Anagoor offre l’occasione per narrare questo viaggio nel sottosuolo che si dipana in due altri capitoli scenici sorti dal confronto con l’opera di Eschilo: Schiavi, che ancora conserva lacerti di Coefore, e Conversio che pur abbandonando la parola di Eschilo, riafferma per la parola, proprio in virtù di questo abbandono, una disperata potenza di salvezza.

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